Il capitolo 147 del libro “Di savana e di montagne” di Vasco Merciadri, intitolato “Meditazione”, rappresenta un viaggio di introspezione e riflessione. L’autore condivide la sua esperienza personale con la meditazione, paragonandola alle pratiche dei mistici tibetani e delle grandi anime occidentali come San Francesco. Merciadri esplora come la pratica dello yoga e della meditazione possa favorire una profonda connessione con sé stessi e con l’universo, sottolineando l’importanza di vivere nel momento presente. Attraverso aneddoti e riflessioni, invita i lettori a sperimentare la meditazione come via per ritrovare equilibrio e felicità interiore.
Estratto del racconto “Di Savana e di Montagne”.
Capitolo 147 – Meditazione
Ed è di questi giorni l’impellente necessità di mettere per scritto le mie idee ed esperienze. La montagna mi aiuta in tutto questo, la montagna come presenza nel qui ed ora, meditazione in cammino, dialogo con il mio sé più profondo. Un po’ come accade ai mistici tibetani, che si ritirano sulle vette o nelle grotte alla ricerca della loro vera essenza, o come grandi anime dell’Occidente quali San Francesco, San Gualberto o San Filippo Benizi, che trassero le loro ispirazioni nel cuore delle secolari foreste della Toscana e come fanno tuttora i monaci eremiti nella continua ricerca interiore.
Ho spesso ricordato che la pratica dello yoga è la ricerca di unità tra la nostra parte fisica ed il nostro spirito, tra noi e gli altri, tra il nostro sé individuale e l’Universo. Nella tradizione di Patanjali, l’esperienza dello yoga è suddivisa in 8 angas, che rappresentano il modo di raggiungere quella unione, vera, non fittizia o immaginata con il nostro vero sé. Partendo dallo Yama, che rappresenta il nostro modo di comportarci nel mondo e che ha tra le sue “direttive” quello di astenerci dalla violenza (fino a che punto abbiamo realizzato la non violenza? Ed in ciò che mangiamo siamo non violenti e rispettosi di altre forme di vita animale?), si arriva fino al Samadhi, che è l’unione con il Tutto, fine ultimo dell’Essere Umano, che si ritrova con altre forme e parole in tutte le religioni ed in molte filosofie.
Il settimo Angas dello yoga è Dhyana, termine difficilmente traducibile in italiano, in cui è riportato come “meditazione”. Meditare però non significa pensare come normalmente saremmo portati a credere, bensì il vivere noi stessi qui ed ora, senza che la nostra mente, come una scimmia impazzita, come ci dicono coloro che l’hanno realizzato, salti continuamente dal passato al futuro e viceversa, al punto da impedirci di vivere il presente, che è l’unica dimensione spazio-temporale che ci appartiene.
Ci dimentichiamo proprio di vivere! Il passato ormai è passato e non possiamo cambiarlo. Il futuro quando si realizzerà sarà presente. Quindi non esiste in quanto tale. È solo un’idea mentale che non corrisponde ad una realtà fisica.
Quindi dobbiamo meditare? Certo! È un profondo stato fisiologico della nostra vita. Sono stati fatti molti studi scientifici sulla meditazione, che dimostrano come durante questa pratica il cervello, misurato con l’elettroencefalografo, lavori emettendo onde alfa, proprio quelle del relax e della tranquillità. Per meditare, per entrare in questo “stato di grazia” come posso fare?
Il sistema più utilizzato è quello di sedere a gambe incrociate e con la colonna vertebrale in posizione eretta, in silenzio, con gli occhi aperti o socchiusi, concentrandoci sull’aria che entra ed esce dalle nostre narici, senza soffermarci su pensieri, preoccupazioni o cose da fare. Bastano venti minuti al giorno.
Viviamo tutta la nostra vita proiettati all’esterno, in relazione con il mondo e con gli altri e ci dimentichiamo di noi stessi, del presente, del qui ed ora. Riappropriamoci di noi stessi.
In genere l’ora migliore per meditare è la sera, al crepuscolo, quando le attività del giorno rallentano, quando siamo al termine della giornata lavorativa. Un ambiente tranquillo, non rumoroso, dove nessuno ci possa disturbare, il telefono spento, seduti in modo comodo a gambe incrociate o in posizione di loto, o su di un cuscino o un panchetto confortevole in modo da poter tenere la posizione per venti minuti senza fastidi alle gambe o alla colonna. Ma non è l’unico modo. Anche altre situazioni o momenti della giornata possono essere idonei alla meditazione.
Anche camminando. Ci sono tradizioni interessanti, come la meditazione Vipassana, tipica della tradizione buddista, in cui, in alcuni momenti della pratica, si usa il passo lento come base della meditazione stessa. O, ad esempio, i famosi Lon-gon-Pa tibetani, che in meditazione riuscivano a percorrere grandi distanze senza che il freddo, la fame o la fatica li rallentassero, magari mentre portavano un messaggio da una lamaseria all’altra. La lamaseria è il convento dei lama e dei monaci tibetani.
Ho provato qualche volta la pratica dei Lon-gon-Pa, ovviamente non per recarmi in luoghi lontani camminando per più giorni, bensì per vivere più profondamente un’esperienza di montagna o più semplicemente di trekking.
È, potrei dire, uno stato di grazia che sorge spontaneamente quando vivi in silenzio la montagna, quando SEI la montagna, gli alberi, i fiori, il cielo. Una profonda esperienza di identificazione con ciò che ti circonda, che ti porta in uno stato di consapevolezza che ti rende presente a tutto quello che avviene intorno a te.
È qualcosa che accade, che non ricerchi, semplicemente avviene, non dipende dalla tua volontà. Ma occorre amore per la montagna, silenzio interiore, osservare ciò che ci circonda, sentire il nostro corpo e i nostri passi. Non dobbiamo essere in competizione con altri o con noi stessi, voler stabilire record di qualsiasi tipo e, fondamentalmente, dobbiamo esserci.
Ci sono tecniche che possono aiutarci su questo importante sentiero di consapevolezza. Ad esempio, verso la fine dell’escursione fermarsi in un prato e meditare per qualche minuto seduti, lasciando fluire stanchezza e pensieri. Se è abbastanza caldo, siamo fisicamente in forma e ci troviamo nei pressi di torrenti o laghetti di montagna possiamo anche fare un tuffo o comunque bagnarci per eliminare il sudore e la polvere e così meditare meglio. In questi casi è importante mettere nello zaino biancheria di ricambio e asciugamano. Ce ne sono di semplici e leggeri in polietilene studiati proprio per asciugarsi in montagna senza che restino troppo umidi.
Meditare, imparare a respirare, camminare consapevoli: questa è la chiave dell’esperienza profonda e al tempo stesso sottile del vivere il nostro cammino, tra prati e boschi. In questi giorni, in cui sento l’impellente necessità di sintetizzare le mie idee ed esperienze, la montagna mi aiuta in tutto questo, la montagna come silenzio, meditazione in cammino, dialogo con il mio sé più profondo.
Nei corsi e nei gruppi su alimentazione e medicina naturale che ho l’opportunità di dirigere, oltre alle fondamentali nozioni tecniche cerco di trasmettere tutto quello che ho realizzato e quando sono libero, spento il cellulare, mi soffermo in meditazione su qualche cresta rocciosa o in qualche torbiera (conoscete le torbiere? Sono la parte più vitale delle montagne) in simbiosi con tutto ciò che mi circonda: i ranuncoli, gli astri alpini, l’epilobio, le api ronzanti, il timido capriolo e i rapaci che volteggiano in alto nel cielo.
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